I Paesi industrializzati sono i principali responsabili della produzione di gas ad effetto serra, che causano un surriscaldamento globale dannoso per l’ecosistema terrestre. Il Protocollo di Kyoto è nato proprio con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra, vincolando i Paesi aderenti agli impegni presi. Nonostante l’impegno dei Paesi aderenti, però, il protocollo di Kyoto non ha dato i frutti sperati e oggi sembra essere definitivamente fallito. Quali sono state le ragioni che hanno portato al suo sviluppo e i motivi del suo fallimento? Ne parliamo in questo articolo.
Il Protocollo di Kyoto è stato il primo accordo internazionale a stabilire un impegno attivo di molti Stati del Mondo nel ridurre le emissioni di gas serra, responsabili del cosiddetto effetto serra e del sempre più preoccupante riscaldamento globale.
Alla base del protocollo di Kyoto c’è la convenzione quadro delle Nazioni Unite, United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCC), stilata nel 1992 a Rio de Janeiro. Questa convenzione è nata con l’obiettivo di impostare la cornice legale e i principi per favorire la cooperazione internazionale per quanto riguarda la delicata materia dei cambiamenti climatici.
5 anni dopo, nel 1997, i rappresentanti degli Stati che hanno firmato il trattato, si sono riuniti in Giappone, a Kyoto, per definire un protocollo che desse attuazione agli impegni presi nel 1992.
Nonostante sia stato adottato nel 1997, il protocollo di Kyoto è entrato in vigore solo il 16 febbraio 2005. Questo perché, per poter essere attuato, doveva essere ratificato da non meno di 55 delle nazioni firmatarie; inoltre, le emissioni complessive di queste 55 nazioni dovevano raggiungere almeno il 55% delle emissioni totali di natura antropica. Fu solo grazie alla ratifica del protocollo da parte della Russia che poté entrare pienamente in vigore.
Al termine della prima fase di applicazione del protocollo, gli stati firmatari risultavano essere ben 191, mentre, al termine della prima fase di attuazione, i Paesi che lo avevano ratificato risultavano essere 176. Gli Stati Uniti e il Canada hanno infatti deciso di non ratificarlo (secondo gli Stati Uniti sarebbe stato dannoso per la loro economia), mentre per India, Cina e Brasile non sono stati predisposti obblighi specifici. L’Australia ha ratificato il protocollo di Kyoto solo nel 2007.
Nel 2013 è invece entrata in vigore la seconda fase del protocollo (2013-2020), che ha confermato il documento stilato nella Conferenza delle Parti di Doha. In questa seconda fase, ci sono state le defezioni di Paesi quali Russia, Giappone e Nuova Zelanda, lasciando così l’onere di ridurre le emissioni di gas ad effetto serra a quelle nazioni responsabili di appena il 16% delle emissioni globali.
L’obiettivo principale del protocollo di Kyoto è stato la riduzione delle emissioni di sei gas ad effetto serra:
I paesi industrializzati che sono stati riconosciuti come i responsabili dei livelli di gas ad effetto serra nel momento di entrata in vigore del protocollo, si sono impegnati a ridurre complessivamente del 5% le emissioni globali di questi gas, rispetto ai livelli di emissione del 1990, nel periodo che andava dal 2008 al 2012. Per raggiungere questo obiettivo, ciascuno dei Paesi appartenenti all’Unione Europea, compresa l’Italia, avrebbe dovuto abbassare dell’8% le sue emissioni di gas ad effetto serra.
Tra gli obblighi previsti dal Protocollo per i Paesi aderenti, tuttavia, non c’è solo la riduzione delle emissioni, ma anche:
Sono state inoltre previste delle sanzioni per i Paesi firmatari che non sono stati in grado di raggiungere gli obiettivi assegnati.
I principi di funzionamento non sono altro che degli strumenti messi a disposizione dei Paesi che hanno aderito al protocollo per permettergli di raggiungere l’obiettivo che gli è stato assegnato:
Nonostante abbia avuto il pregio di rappresentare il primo impegno comune per cercare di ridurre l’impatto delle attività dell’uomo sull’ambiente, il Protocollo di Kyoto non ha dato i risultati sperati, tanto che si può parlare, ormai, di un vero e proprio fallimento dei suoi obiettivi.
Una delle ragioni che sono alla base di questo fallimento è sicuramente il costo per gli Stati che vi hanno aderito che, tra acquisto di quote al carbon market e sanzioni per il mancato rispetto degli impegni, hanno finito per trovarlo troppo oneroso.
La seconda ragione è rappresentata dal fatto che i Paesi che contribuiscono alla maggior parte delle emissioni non hanno mai preso un impegno vincolante per la loro riduzione. L’esempio più significativo sono gli Stati Uniti, che causano il 36% delle emissioni e, pur avendolo firmato, non hanno mai ratificato il protocollo. Anche Cina e India, considerati al momento della stipula Paesi in via di sviluppo, pur avendo emissioni importanti non sono mai stati sottoposti a vincoli per ridurle.
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